Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 2,6-11)
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
Questo passo di San Paolo è stato definito un inno cristologico.
«La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. […] Egli era la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,4-5. 9) «Ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3,19).
I raggi di questa luce sono penetrati soltanto nel cuore di persone semplici, bisognose di speranza e di conforto; gli stessi raggi di luce invece hanno irritato e infastidito i cuori induriti dall’orgoglio e dall’invidia.
Eppure «ha fatto bene ogni cosa» (Mc 7,37). Perché, quindi, ha dovuto morire come un malfattore per salvarci? Per una misteriosa volontà del Padre: per perdonare il peccato dell’uomo Gesù doveva spargere il sangue linfa eterna per ogni uomo e donna che vive sulla terra bisognosi di perdono e riconciliazione. Gesù non ha ricercato la morte in croce, ma per evitarla avrebbe dovuto rinnegare tutto ciò che aveva detto e fatto. La sua missione sarebbe fallita: ci ha insegnato a chiamare Dio «Padre»; come anche «il più grande è chi serve». Inoltre, a Dio si deve l’adorazione in spirito e verità; la precedenza nel Regno di Dio appartiene ai poveri spirito agli umili ai piccoli a coloro che compiono la volontà di Dio.
Paolo ricorda a tutti noi, cristiani di oggi, di guardare Cristo e di seguirne l’esempio, lo fa citando l’inno stupendo conosciuto in molte comunità cristiane del I secolo.
Gesù, incarnandosi, si è fatto uomo, si è svuotato della sua grandezza divina e ha accettato di entrare in una esistenza dove dominava la morte. È apparso ai nostri occhi rivestito di profonda umiltà, ha preso su di sé ogni nostro dolore, chiamato per questo: «uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53,3); ha donato tutto se stesso per la nostra salvezza.
Oggi, immersi in un neopaganesimo, incorriamo nel peccato di idolatria e di apostasia più di quanto possa sembrare. Diventiamo così «nemici della Croce di Cristo» (Fil 3,18).
La seconda parte dell’inno canta la gloria alla quale egli è stato elevato. Il Padre, che aveva accettato l’atto di obbedienza del Figlio nell’incarnazione e nella Passione, ora lo esalta. Questa esaltazione è espressa non solo attraverso l’intronizzazione alla destra di Dio, ma anche con il conferimento a Cristo di un “«nome che è al di sopra di ogni altro nome» (v. 9). Il Padre conferisce al figlio una dignità incomparabile, il «nome» più eccelso quello di «Signore» proprio di Dio stesso. Alla fine di questa meditazione vorrei sottolineare l’ammonimento di San Paolo: «impariamo a sentire come sentiva Gesù; a conformare il nostro modo di pensare, di decidere, di agire ai sentimenti di Gesù»” (Benedetto XVI). È questa la strada giusta.
Meditiamo:
- Quali sentimenti nascono in me sostando davanti al crocifisso?
- In quali occasioni ho rinunciato a privilegi o a difendermi per vivere l’umiltà di Dio?
- Cosa significa per me adorare Gesù Cristo, il servo che si è umiliato ed è stato esaltato?
Recent Comments